Dal voto contrario all'arresto di Milanese a quello che ha salvato il ministro Romano dalla mozione di sfiducia. Dal silenzio sui drastici tagli agli enti locali alle sempre più evidenti lotte intestine che logorano un movimento fino a qualche anno fa granitico. I motivi di disagio tra i militanti leghisti sono sempre più numerosi, e le rigide direttive con cui i vertici della Lega cercano di bloccare ogni voce di dissenso ' a partire da quelle degli amministratori locali ' rischiano di non riuscire a frenare ancora a lungo il malessere di una base che si sente tradita.
Lo raccontano, ai giornalisti della Difesa - Toni Grossi e Tatiana Mario - sindaci e militanti, divisi tra la fedeltà alla linea ufficiale e la difficoltà a digerire scelte sempre più contrastanti con gli slogan gridati in piazza. Perché alla fin fine ' si tratti di gestire i flussi migratori o di rimettere in sesto i conti dello stato ' la sofferenza della Lega nasce proprio dalla consapevolezza che le ricette di cui si è fin qui nutrita l'ideologia leghista sono o inapplicabili, o inefficaci. E l'elettorato rischia di non riconoscersi ancora a lungo in un movimento che, dopo aver visto lievitare i suoi consensi negli ultimi anni, inizia a pagare l'inconsistenza del tanto sbandierato federalismo e l'incapacità di un ricambio generazionale al suo interno.
«Al Carroccio ' scrive Francesco Jori nell'analisi che introduce l'ampio servizio dedicato dal settimanale diocesano al malessere della Lega ' vanno riconosciuti meriti oggettivi per i non pochi elementi di novità che ha introdotto su un'ingessata scena politica a partire dagli anni Novanta; e in quest'arco di tempo è cresciuta anche una generazione di amministratori locali che hanno saputo conquistarsi sul campo la fiducia della gente. Ma proprio per questo, è impensabile che a distanza di tanto tempo il movimento debba ancora rimanere inchiodato all'autoproclamato dogma dell'infallibilità di Bossi, e al suo concetto di partito personale da gestire come un affare di famiglia».