Oltre cento rappresentanti delle Caritas dei paesi appartenenti all’area Medio Oriente – Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Giordania, Gibuti, Somalia, Grecia, Cipro, Italia, Spagna) e a paesi europei che vivono movimenti migratori (Svezia, Germania, Norvegia) oltre a Caritas Europa, Caritas Internationalis, Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) si sono ritrovati a Tunisi, dal 15 al 18 giugno, per Migramed 2015. È il Meeting internazionale Caritas del Mediterraneo che si svolge annualmente dal 2010 in uno dei paesi che si affacciano su questo mare oggi più che mai scenario (non unico e non ultimo) di immani tragedie. Quest’anno il tema era: “Siamo servitori della speranza per una nuova primavera”. Sul tavolo la “questione migratoria”, un vero evento epocale che chiede conoscenza, consapevolezza e sguardo lungimirante, come sintetizza don Luca Facco, direttore di Caritas Padova che vi ha partecipato insieme a Sara Ferrari, referente per Caritas Padova dei progetti di promozione umana.
«Di fronte a questa situazione, che è epocale, irrefrenabile e irreversibile – sottolinea e ribadisce don Luca Facco – appare evidente che il tema delle migrazioni non interessa più solo gli stati che si affacciano sul Mediterraneo o l’Europa come meta di arrivo, ma coinvolge necessariamente tutti i paesi», sia quelli di partenza dei flussi migratori, sia quelli che fungono da tappe intermedie sia quelli di meta finale. «La riflessione geopolitica deve coinvolgere davvero tutti e il punto di partenza non può che essere la conoscenza della realtà e della storia dei paesi». In questo senso Migramed rappresenta un momento utile non solo di confronto, ma anche di comprensione del panorama migratorio, ben consapevoli che oltre al Mediterraneo ci sono numerosi altri “luoghi” spesso dimenticati – i deserti africani solo per fare un esempio – dove muoiono decine di migliaia di persone di cui non si sa nulla e non si parla. Tragedie sconosciute che appartengono a un fenomeno migratorio globale, se pensiamo che i primi tre paesi di “destinazione” nel mondo sono nell’ordine: Stati Uniti (con il fronte caldo messicano), Russia e Germania. L’Italia si pone “solo” all’undicesimo posto.
Ma torniamo all’area Medio Orientale e Nord Africana, per fotografare una situazione che prima di spaventare dovrebbe far riflettere e anche ricordare le responsabilità storiche di molti paesi “occidentali”. Uno sguardo al Corno d’Africa è sufficiente per capire l’entità del fenomeno: in Somalia (parola del vescovo di Gibuti, il padovano mons. Giorgio Bertin) si sono un milione e 100 mila sfollati; solo a Gibuti 23 mila rifugiati e richiedenti asilo; in Etiopia sono 690 mila i rifugiati, un terzo circa proveniente dal Sud Sudan e 500 mila sono gli sfollati interni; nello Yemen sono almeno 800 mila i rifugiati e richiedenti asilo tra cui 10 mila siriani. Risalendo troviamo l’esodo dei libici: da maggio 2015 oltre 20 mila hanno lasciato il paese; mentre in Giordania l’Unhcr registra 660 mila rifugiati a cui si aggiungono due milioni di persone provenienti da Siria, Palestina, Iraq. E non è diversa la situazione in Libano dove ci sono un milione e mezzo di rifugiati siriani, oltre 2300 famiglie irachene, 400 mila palestinesi nei campi profughi e 400 mila lavoratori stranieri…
E la lista potrebbe continuare…
Oltre ai numeri ricordano da Caritas Padova c’è poi da far chiarezza sulla tipologia: non tutti i migranti sono “uguali” nelle motivazioni: ci sono quelli che scappano dalla guerra che possono chiedere asilo politico o status di rifugiati e come tali sono sottoposti a un determinato percorso (per esempio: devono rimanere nello stato in cui chiedono asilo e nei primi sei mesi non possono lavorare, ma possono però essere coinvolti in attività di volontariato); ci sono i cosiddetti “migranti economici”, che fuggono da situazioni di povertà, su cui spesso si riversano tutte le speranze di un clan o di una famiglia che “investe” su di loro per un futuro migliore per chi va e per chi resta (solitamente questi migranti ricadevano nella pianificazione dei flussi, che in Italia da alcuni anni non è stata più regolamentata). C’è infine chi se ne va in nome di una libertà che nel proprio paese non c’è (sono giovani che hanno anche disponibilità economiche, non accettano i regimi dittatoriali dove sono cresciuti, mirano a trovare un miglioramento e non si limitano al primo paese disponibile ad accoglierli).
Ma il vero problema è che attualmente tutti questi flussi migratori non trovano una regolamentazione e soprattutto “vie legali e riconosciute”. Ecco che si foraggia la “mafia” che gestisce gli scafisti, ultimi anelli di una catena “imprenditoriale” dalle dimensioni di guadagno enorme in cui la tratta umana si incrocia con il commercio di armi e di risorse non solo petrolifere. «I profughi – è stato detto chiaramente a Migramed – sono la principale fonte di guadagno del nuovo terrorismo».
Cosa fare allora? C’è una risposta “laica” che dovrebbe incrociare tutte le istituzioni internazionali e gli stati che riguarda proprio la ricerca di soluzioni strategiche e di legislazioni chiare e organiche per esempio sull’asilo politico, ma anche la possibilità di gestire in modo regolare gli ingressi, attraverso le ambasciate dei paesi terzi per i richiedenti asilo e tramite altre formule di visto o di regolamentazione dei flussi per i migranti economici. In questa prospettiva Migramed 2015 si è proposta di sottoporre una “controagenda” all’Europa in modo da sensibilizzare una riflessione e un’azione politica internazionale coordinata. C’è poi una risposta “confessionale” che parte da un principio “assoluto”: «La Chiesa è sempre per l’accoglienza, la questione semmai si pone sulle modalità e lo stile. Non c’è dubbio – è categorico don Luca Facco – che le vite umane si salvano».
Dal confronto a Tunisi Caritas Padova torna confortata sulle scelte finora attuata e determinata a intraprendere nuovi progetti, anche qui sapendo che ci sono delle responsabilità che spettano in particolare alle istituzioni ai vari livelli (creare una cabina di regia seria e operativa che coinvolga i comuni e il privato sociale; monitorare le situazioni di accoglienza; disporre di operatori competenti; prevedere standard unitari e non differenziati di accoglienza) e altre che coinvolgono la rete delle parrocchie e delle comunità cristiane. «Ci troviamo sostenuti nella scelta delle piccole accoglienze diffuse nel territorio, ma in un territorio che sia effettivamente coinvolto e partecipe: non basta dare gli spazi, bisogna creare consenso e consapevolezza attorno all’accoglienza – ricorda don Luca Facco – È poi fondamentale che queste persone, siano coinvolte in servizi di volontariato di pubblica utilità, in modo da permettere loro di “restituire” e di “rigenerare” l’accoglienza che ricevono e di smorzare i fantasmi della paura nei loro confronti. Da parte nostra continua la sensibilizzazione nelle comunità e l’appello reiterato del vescovo Antonio ad aprire le porte sta portando i suoi frutti: abbiamo parrocchie, ma anche realtà religiose, che hanno dato disponibilità di spazi e altre che stanno provvedendo all’agibilità delle strutture. Parliamo sempre di piccoli numeri perché è la formula migliore per integrare nella vita sociale delle comunità e per fugare i timori».
«L’accoglienza fa bene – conclude Sara Ferrari – riferendosi a un progetto appena avviato ad Asti che sta coinvolgendo anche il mondo culturale e dello spettacolo – E non è solo uno slogan, perché accogliere bene crea opportunità, contribuisce alla reciproca conoscenza e al reciproco aiuto a costruire una società in cui poter convivere meglio insieme». Senza dimenticare che se l’accoglienza non è “buona” lo sfruttamento – sessuale o lavorativo che sia – è sempre alle porte, anche qui in Italia.
Su queste consapevolezze Caritas Padova sta mettendo a fuoco un progetto formativo: «Vorremmo avviare un laboratorio, un percorso di studio e di confronto che coinvolga in particolare i giovani partendo dalla prima necessità che è conoscere, capire e approfondire i fenomeni e i temi a essi connessi. Un lavoro formativo che dovrà essere esteso anche alle comunità parrocchiali».
Sara Melchiori
cs 215/2015
Padova,
””