«Ho annunziato la tua verità, o Signore. Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai. Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore».
Poco fa abbiamo risposto alla prima lettura con queste parole, del Salmo 39. Ci rimandano a un’espressione che spesso viene usata, ad esempio in alcune litanie, per definire sant’Antonio: “voce di carità”.
Sant’Antonio è stato un grande annunciatore della Parola e della giustizia del Signore, nella Chiesa e nella società del suo tempo. È ricordato soprattutto per i sermoni, per il coraggio che ha avuto di predicare il Vangelo, di denunciare le ingiustizie, di raccontare le gesta del Signore, di richiamare alle esigenze della carità e della giustizia secondo Dio, di predicare la misericordia di Dio verso i peccatori. È stato “voce” della carità di Dio, del suo desiderio di salvezza per ogni figlio e figlia, di guarigione di ogni male dell’anima e del corpo. I miracoli di Gesù e dei santi sono testimonianza di miracoli molto più profondi anche se spesso invisibili come tutte le cose che riguardano i sentimenti e il mondo spirituale. Sono immagine e speranza per la vita e il suo senso, per le relazioni sociali e le loro dinamiche; sono incoraggiamento per chi attende giustizia, anche in rapporto alla società che spesso esclude ed emargina. Se per intervento del Signore, per miracolo, guarisce il corpo fisico; per intervento del Signore e dei santi possono guarire i nostri mali spirituali e così anche le dimensioni più culturali e sociali di cui siamo parte ed espressione e dalle quali sempre più dipende il nostro star bene.
C’è un aspetto in particolare di questa guarigione sociale che mi sta a cuore in questo tempo: essa riguarda la possibilità di ricominciare a vivere per le persone che hanno sbagliato.
Nella mia vita ho incontrato carcerati, falliti, emarginati, persone che spesso hanno maturato la consapevolezza del loro errore. Oggi, con voi, vorrei mettermi nei loro panni; in quelli delle loro mogli o dei loro mariti, dei loro figli, dei loro conoscenti e amici e chiedermi: come stanno nella nostra società coloro che hanno sbagliato e che hanno riconosciuto il loro errore e pagato il loro eventuale debito con la giustizia?
Sono tante le norme scritte e non scritte che regolano la condizione di chi ha sbagliato e ha pagato per il proprio errore. Per chi ha ruoli pubblici spesso c’è l’impedimento a svolgerli nuovamente, e questo è comprensibile, quando in gioco ci sono grandi responsabilità. Ma non sempre le regole chiedono o prevedono questo: eppure, chi sbaglia, a volte anche in piccolo, è sottoposto a una pena eterna e universale, anche a motivo dei meccanismi (non necessariamente voluti) della comunicazione. Il pubblico peccatore o il colpevole di qualche reato per l’opinione pubblica rimane tale per sempre, anche quando si pente e ripara il male fatto o ha pagato il proprio debito con la giustizia.
Mi piacerebbe pensare a una città e a una comunità dove – per chi ha sbagliato, ha pagato e si è sottoposto a un rigoroso percorso di ravvedimento che rispetti fino in fondo il dolore delle eventuali vittime – sia possibile trovare oltre che pubblica accusa anche pubblica misericordia e il riconoscimento del cammino svolto attraverso reali, seri, rigorosi e veritieri percorsi.
Dicendo e auspicando questo non ritengo si alimenti un malinteso spirito lassista, omertoso e amorale. Mi pare piuttosto un atteggiamento che nasce dalla fedeltà all’annuncio di misericordia che viene dal Vangelo, mi sembra un modo per tradurre nelle nostre storie e nella nostra cultura il grande dettato evangelico del perdono. È come se ci stessimo accorgendo di uno spazio non ancora visitato e non ancora raggiunto dal Vangelo, un cono d’ombra che dobbiamo poter illuminare. La misericordia di Dio è promessa di risurrezione, promessa di vita nuova. Se questo ha un senso, come singoli e come comunità siamo chiamati a favorire processi di autentica riparazione e riconciliazione, dando la possibilità di ricominciare a chi ha sbagliato.
Per questo la città celebra il Santo, il santo dei miracoli, il segno di Dio che interviene con potenza anche nelle situazioni umane e sociali più difficili. E questo è il miracolo che vorrei invocare per intercessione di sant’Antonio: nella nostra città trovi spazio il miracolo divino che tiene insieme, e quasi fa coincidere, giustizia e misericordia, affinché tutti abbiano dignità e giusto riconoscimento, e la speranza non muoia mai nel cuore di chi ha sbagliato e vorrebbe riparare e ricominciare.
Spesso questi percorsi di rinascita non sono aiutati dai meccanismi comunicativi.
Diceva Benedetto XVI (8 dicembre 2009): «Ogni giorno, attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono».
Il mondo della comunicazione oggi ha del resto una caratteristica particolare: è fatto anche da noi. Ciascuno può far sentire la propria voce, che magari si perde nel mare della comunicazione digitale: ma è pur sempre una possibilità.
L’esempio di sant’Antonio e le parole del Salmo possono dunque farci interrogare: quelle che si odono sono tutte voci di carità? Sono annunci di verità? Sono parole di giustizia e di misericordia? Questo interrogativo riguarda ciascuno di noi, ogni volta che siamo davanti a un social e digitiamo e inseriamo qualcosa, ogni volta che facciamo un video, che registriamo un audio: infatti sembra che qualcuno abbia trovato lì il luogo dove esprimersi talvolta in modo indecente e permettendosi una violenza verbale devastante.
È un interrogativo ancora più forte per chi possiede mezzi potenti per diffondere grandemente la propria e l’altrui voce.
Se vogliamo dar spazio alla misericordia e al perdono, siamo chiamati tutti a una conversione nell’uso della voce che ci è data e della parola che possiamo pronunciare.
Su ogni vicenda umana gli intrecci delle voci devono saper compiere tutto il percorso, se non si vuole che la loro pena sia eterna e universale: dalla opportuna denuncia dell’ingiustizia alla veritiera informazione sul male compiuto alla collettività, alla chiara comunicazione dell’avvenuta riparazione, fino al racconto dei percorsi di riconciliazione, favorendo così la possibilità che ci sia riabilitazione anche pubblica per chi questi cammini li ha fatti seriamente, pagando il debito e reintegrandosi nella comunità.
Diceva ancora Benedetto XVI: «La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso! I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri».
Che sant’Antonio ci aiuti ad avere un approccio equilibrato alle tante parole che udiamo e a quelle che pronunciamo “nella grande assemblea”. Non indugiamo all’insulto, all’offesa, alla condanna eterna, al giudizio superficiale. E più spesso ancora, proviamo a trattenere la nostra voce e ad ascoltare la voce di chi chiede carità e misericordia. Sarà una città migliore, più in pace.
+ Claudio, vescovo
CS 179/2018
Padova, 13 giugno 2018