Nella vecchia Europa, viviamo un periodo di particolare “spiazzamento”. Le coordinate del progresso che ci hanno accompagnato fin qui, promettendoci un benessere diffuso e garantito paiono smarrite. Incertezza e preoccupazione aumentano la nostra diffidenza verso gli altri e verso il futuro.
In un paio di secoli le comunità tradizionali, di villaggio o di borgo, nel vecchio continente, sono state rimpiazzate dalla “società di massa” della rivoluzione industriale, poi, dalla seconda metà del 900 quella realtà si è frammentata nella molteplicità eterogenea e variabile delle condizioni individuali (lavorative, familiari, di consumi, di fedi e credenze, di stili di vita, di provenienze geografiche …) e oggi fatichiamo a trovare forti ragioni condivise del vivere insieme.
Si allentano i legami costitutivi del “noi”, generativi del senso di appartenenza, di identità permanente. Lo sviluppo del “culto del sé”, autoreferenziale, sbilanciato sul presente, riduce la percezione di responsabilità reciproca e sociale. Sembra prevalere una stagione di disimpegno sulle sorti collettive, avendo spostato l’attenzione sul compito di ogni singolo di “cavarsela da sé” (nel bene e nel male, nel successo e nel fallimento), all’inseguimento della propria personale realizzazione. Ma in questo cresce anche la percezione di solitudine, nella «tristezza individualista – come scrive Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium – che scaturisce dal cuore comodo e avaro (…), dalla coscienza isolata».
Gli abitanti dell’Occidente, si mostrano sempre più insofferenti a ogni regolazione sovra individuale (il sistema normativo e giudiziario, il sistema politico, la pubblica amministrazione) e sovra locale (lo Stato nazionale, la Comunità Europea ecc…).
Quanto più le istituzioni divengono fragili, però, tanto più la reciproca conflittualità tra persone, gruppi sociali, forze economiche si esprime nella sua distruttività. Ciascuno teso alla realizzazione di una propria condizione di vantaggio o, almeno, di minore svantaggio.
Cresce la percezione di diversità/separazione dagli altri, oggetti da utilizzare come risorse strumentali per sé o da cui è necessario difendersi.
Allora la solidarietà si fa “corta”, si rafforza tra pochi in difesa di nemici comuni (altri, separati, minacciosi, competitori, antagonisti, stranieri).
In questo scenario il conflitto permea, in forma latente o esplicita, le relazioni interpersonali e sociali.
Al contrario, allestire occasioni di “condivisione” significa, provocare spazi e momenti in cui i singoli possano vedere gli “altri” oltre la loro estraneità, ascoltare (fisicamente, emotivamente e cognitivamente) le diversità e le similarità.
Allestire spazi “civici”, riconoscendosi parte della stessa città, co-artefici di civiltà richiede un impegno consapevole. Le comunità civiche non si danno per germinazione spontanea, sottendono la scelta determinata di chi se ne fa corresponsabile.
Tessere legami di condivisione, convenire su mete comuni, assumere corresponsabilità sulle condizioni di ciascuno, legittimare forme di regolazione sociale pubblica, sono obiettivi da perseguire e non certo una premessa ovvia. Tessere o confliggere, con-prendere o negare, riconciliare o disgregare rappresentano prospettive opposte che richiedono scelte condivise (con-senso) e il relativo investimento di competenze e risorse… un vero e proprio lavoro sociale, così come si fa (o si dovrebbe fare) per la crescita culturale e l’istruzione della popolazione o per l’igiene pubblica e la salute dei cittadini, o per il mantenimento dell’ordine e della legalità.
Per coltivare questi frutti servono molti agricoltori ben preparati e sufficientemente generosi.
Luigi Gui, direttore della Scuola di Formazione all’Impegno sociale e politico della Diocesi di Padova
Padova, 8 ottobre 2015
cs 254/2015
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